“Ogni storia è una storia sul clima”, ecco perché

Deep into the future planet: raccontare storie sul clima e su come la crisi climatica si intreccia con le nostre vite individuali e collettive, a tutti i livelli e in tutte le dimensioni. Intervista a Elisabetta Tola, giornalista scientifica e autrice del podcast Foresight prodotto da CMCC e FACTA. Un mix di voci provenienti dai mondi della scienza, dell'arte, dell'attivismo e della politica mostrano la complessità della crisi climatica e delle sue possibili soluzioni.

Perché ci piacciono i podcast? I podcast offrono un’esperienza audio unica e flessibile, e facilmente accessibile a tutti. Possono ospitare discussioni complesse, approfondimenti tematici e prospettive uniche che potrebbero non essere disponibili in altre forme di media, creando un legame uditivo tra persone in ogni parte del mondo, anche lontanissime tra loro. La natura dialogica dei podcast può attivamente coinvolgere gli ascoltatori in una conversazione più ampia e fornire ispirazioni e spunti di riflessione attraverso storie ed esperienze.

Inoltre, i podcast ci riportano all’oralità, come sostiene Elisabetta Tola, giornalista scientifica e autrice del podcast Foresight – Deep into the Future Planet. “Il podcast stimola la nostra capacità di prestare attenzione alla narrazione orale”, dice, “alla costruzione di narrazioni che sono rigorose da un punto di vista scientifico, storico e politico, ma al centro delle quali ci siamo noi.” In questa intervista, Tola racconta la sua esperienza nella creazione di un podcast che esplora storie sul clima attraverso una prospettiva orientata al futuro.

Quali erano il target e l’obiettivo del podcast?

Essendo ospitato sulla rivista Climate Foresight, la nostra idea era chiaramente quella di assicurarci che si rivolgesse principalmente al pubblico della rivista. Da un punto di vista pratico, ciò ha significato che il podcast sarebbe stato in inglese anziché in italiano. Devo dire che sono molto soddisfatta di questa decisione, perché i dati iniziali mostrano che il podcast è stato ascoltato anche in paesi al di fuori dell’Italia e, soprattutto, al di fuori dell’Europa, cosa a cui tenevamo molto.

L’idea era infatti di parlare anche a tutto un pezzo di mondo che spesso non viene coinvolto e ascoltato quando parliamo di clima, e quindi del quale poi si parla anche poco in questo ambito. Siamo state quindi molto attente a cercare voci rappresentative di diversi luoghi e di mondi diversi da quello della scienza formale, ma anche di comunità e di collettività che a volte non arrivano sui nostri media tradizionali, sulle nostre piattaforme.

Il nostro obiettivo era quindi di ragionare sulla crisi climatica guardando al futuro e non solo al presente. Volevamo allontanarci dalla classica dinamica della descrizione della crisi, sulla quale si indugia già molto. Abbiamo voluto invece provare a ragionare su quelli che sono gli sviluppi, i possibili approcci alla crisi, guardando appunto dall’ottica del futuro. Questo ha significato chiederci non solo quali fossero le soluzioni, ma soprattutto quali fossero gli atteggiamenti culturali e gli elementi sociali da abilitare perché ci siano delle risposte alla crisi climatica.

E quindi fin da subito abbiamo pensato a un podcast che tenesse insieme voci provenienti da vari ambiti scientifici con le voci di chi lavora o è attivo in tutti gli altri aspetti della questione, dall’arte all’attivismo locale, a chi si occupa di aspetti economici e finanziari, di policy e così via.

L’obiettivo numero uno era prima di tutto quello di mostrare, anche attraverso le scelte di queste voci, il livello di complessità della crisi climatica, e quanto questa sia una crisi sistemica, che ha sicuramente un impatto sull’ambiente naturale e fisico, ma in realtà impatta tutti i settori della nostra storia. Come diciamo nell’ultima puntata, “Every story is a climate story“.

Se dovessimo caratterizzarlo da un punto di vista editoriale, questo non è un prodotto divulgativo. È un insieme di storie, un insieme di punti di vista che hanno qualcosa in comune. Cosa?

Hanno vari elementi in comune. Ad esempio, nessuna di queste voci è una voce rassegnata: questo credo che sia il tema centrale. Sono tutte persone che a livelli diversi stanno lavorando molto e con grande passione per proporre delle soluzioni, per proporre un modo di affrontare la crisi che sia orientato al futuro, per il bene delle prossime generazioni.

Credo che uno degli aspetti negativi del modo in cui a volte si parla di crisi climatica è quello di concentrarsi sul presente e sul passato. È sicuramente fondamentale risalire alle responsabilità, capire quale è stato il processo attraverso il quale siamo arrivati alla situazione attuale. Ma è altrettanto importante guardare avanti, forse ancora di più per cercare di perequare l’ingiustizia intergenerazionale che abbiamo generato.

Dovremmo ragionare dal punto di vista di chi oggi è giovane e dovrà domani avere a che fare con questo futuro, e si ritroverà a doverlo gestire. Secondo me questo è un tratto comune a tutte le persone che ci hanno raccontato il loro punto di vista e il loro lavoro: non rassegnarsi al fatto che ormai è troppo tardi per fare qualcosa.

Chiaramente è tardi per tornare a una situazione equivalente a prima degli anni ‘90 all’interno della nostra storia personale, ma non è tardi per cercare nuove forme di equilibrio che siano compatibili con la vita e il benessere delle generazioni future.

Dall’intreccio di queste storie e di questi punti di vista emergono questioni più profonde e trasversali. Quanto è importante avere una narrazione così intersezionale?

Secondo me è centrale. Il punto chiave è che la crisi climatica è una crisi sistemica, ed è anche il risultato di un approccio coloniale al mondo. In particolare, noi europei siamo andati in giro per il mondo devastando ambienti di collettività, comunità, società, reclamando primati sulla scienza, sulla cultura, eccetera. Tutte queste cose sono senz’altro vere nella chiave coloniale tradizionale, ma anche in una chiave di colonialismo attitudinale e culturale, in cui abbiamo ancora oggi una visione per cui noi dobbiamo portare le soluzioni al resto del mondo, noi sappiamo cosa è giusto fare, noi dobbiamo spiegare agli altri come si fa la democrazia, come si gestisce l’ambiente, come si rispettano i diritti, con pochissima umiltà e pochissima attenzione a quello che tutte le culture e tutte le varie popolazioni del mondo possono mettere sul piatto.

Trovo molto interessante che in questo momento i paesi che sono stati i minori contributors, cioè quelli che hanno avuto un ruolo minimo nel disastro climatico, siano oggi spesso quelli che si mettono in prima linea anche con le soluzioni. Ad esempio, penso agli sforzi di certi paesi africani di lavorare sulla rigenerazione del suolo, sulla riforestazione, sull’educazione, per cercare di creare una popolazione che riesca ad avere un approccio sostenibile allo sviluppo e all’economia.

Di recente ho letto un articolo molto interessante, in cui si mostrava come molti paesi del sud del mondo sono fortemente indebitati nei confronti delle grandi istituzioni internazionali, e quindi hanno più difficoltà a intraprendere una strada verso politiche sostenibili, verso la transizione energetica, invece di sfruttare le loro enormi risorse naturali che generano mercato, redditività e profitto sicuri.

Questo evidenzia quanto sia veramente importante tenere insieme tutte queste dimensioni, perché la crisi climatica è la rappresentazione di un modello predatorio di sviluppo, basato sull’idea di colonizzare l’ambiente, le altre persone, e le loro preziose risorse. Devo dire che mi piace questa riflessione a diversi livelli, perché ci fa ragionare sulle dinamiche che stanno alla base del perché si è creata una situazione così disuguale.

Quanto è stato importante dare voce a una grande varietà di individui per raccontare una storia collettiva e globale?

Io sono convinta e mi piace sempre sottolineare l’importanza di quanto anche una singola persona possa a volte cambiare radicalmente un pezzo di storia. Alcune delle voci che abbiamo intervistato sono persone centrali nelle proprie comunità e hanno un peso importante nella società. E quindi sì, ci sono voci individuali e ci sono persone singole nel nostro podcast.

Ma è importante sottolineare che anche se le persone a volte riescono a scardinare una storia, dobbiamo stare molto attenti a non mettere sulle spalle delle singole persone la responsabilità della risoluzione di un problema la cui dimensione necessariamente richiede l’impegno politico e del mondo industriale a tutto tondo. La crisi climatica non si risolverà mai solo grazie ai comportamenti individuali e al lavoro dei singoli. Ci deve essere una fortissima pressione sui sistemi politici internazionali, nazionali, regionali, e locali, perché la transizione si faccia, perché si cambi modo di stare al mondo e di produrre, di lavorare in relazione con l’ambiente. Parimenti deve esserci pressione sul sistema industriale e sul sistema finanziario, in modo che i grandi attori siano messi nella condizione di non avere alternative rispetto a politiche di questo tipo.

Dall’altro lato, è certamente più facile che ci sia una politica incline a rispondere a certi tipi di esigenze se alla base i cittadini richiedono quel tipo di attenzione. Quindi i singoli da soli non cambieranno la questione climatica, ma possono aiutare moltissimo all’interno delle proprie comunità a lavorare sulla costruzione di una cultura condivisa che faccia pressione sui decisori.

Questo è un podcast che parla di cambiamenti climatici, prodotto da un centro di ricerca. Quindi è un podcast scientifico?

No, è un podcast giornalistico, e ci tengo molto a sottolinearlo. Sono stata estremamente felice di avere l’occasione di creare una collaborazione tra FACTA, Foresight e il CMCC, perché non volevamo che fosse un podcast che in qualche modo riflette la visione scientifica di un’istituzione.

È un podcast giornalistico che vuole raccontare, attraverso un linguaggio giornalistico, anche un pezzo di scienza. Però, appunto, è una scienza estremamente calata nella realtà sociale e di contesto. È come a me piacerebbe che fosse il giornalismo scientifico, cioè che il giornalismo scientifico fosse prima di tutto giornalismo.

Cosa ti piace dei podcast come format per fare giornalismo scientifico?

A me piacciono molto le narrazioni, in generale. Credo che sia una cosa incredibile: siamo tornati all’oralità. Il podcast sollecita la nostra capacità di porre attenzione alla narrazione orale. Avendo speso talmente tanto tempo in ambiente radiofonico, per me l’oralità rimane la forma numero uno di comunicazione, quella della costruzione di narrazioni, comunque rigorose dal punto di vista scientifico, storico, politico, ma in cui centrali ci siamo noi.

E noi siamo persone che non agiscono solo sulla base di un protocollo scientifico, ma anche sulla base di visioni politiche, di forti convinzioni relative a come vorremmo vedere il futuro dei nostri figli, come vorremmo vedere l’ambiente gestito in maniera compatibile con la vita, non solo la nostra, ma anche quella delle altre specie. Quindi il podcast mi piace perché permette di andare su tutti questi piani, di ragionare su tanti livelli.

L’ascolto è raramente lineare, e secondo me in questo il format podcast è molto potente, perché ci dà il tempo di sedimentare un pensiero e di ragionarci, di avere uno spazio mentale per la riflessione.

Qual è stata la cosa più difficile nel fare questo podcast, e quale la tua preferita?

Devo dire che la cosa più difficile è stata trovare gli intervistati e ricevere risposta. L’impressione è stata che nel momento in cui è ripartito tutto dopo la pandemia, le persone stessero subendo un senso di overload da ritorno alla normalità. Tutti erano pieni di impegni e non riuscivano a stare al passo con il ritmo del ritorno alle attività di una volta.

Al tempo stesso questa è stata anche la parte più bella, perché ci ha portato a lavorare ancora di più, a scavare più in profondità. E devo dire che alla fine i nomi che abbiamo coinvolto sono solo la metà di quelli che avevamo immaginato inizialmente. In molti casi abbiamo dovuto fare una ricerca ancora più approfondita, e questo ci ha portato anche a trovare persone estremamente interessanti e diverse, che forse non avevamo preso in considerazione perché in prima battuta abbiamo seguito dei percorsi più tradizionali.

La parte che mi è piaciuta di più e che credo dia al podcast un elemento di originalità è proprio questa: il fatto che abbiamo deciso di dare molto spazio e molta voce – stando attenti ovviamente a tutte le questioni di equilibrio di genere, di età, di luoghi – a persone che raramente sono rappresentate ai tavoli dei principali attori mondiali. Aver portato queste voci a interloquire tra di loro tutte assolutamente con la stessa dignità, mi sembra che sia stato uno dei risultati più belli del podcast “Deep into the Future Planet”.

Elisabetta TolaElisabetta Tola è giornalista scientifica e data journalist. Tow-Knight fellow 2019 Graduate School of Journalism, ha un PhD in Microbiologia. È caporedattrice a Il BO Live e conduttrice di Radio3Scienza a RAI Radio3. Cofondatrice e CEO dell’agenzia di comunicazione scientifica formicablu e del progetto indipendente no-profit di giornalismo Facta.eu, è media trainer e docente di giornalismo scientifico digitale, dati e AI al Master in Comunicazione della Scienza, SISSA, Trieste. Coordina il progetto europeo di ricerca ENJOI sulla qualità del giornalismo e della comunicazione scientifica.

È coautrice di progetti internazionali multimediali, di data journalism e podcast – tra gli ultimi Foresight – Deep into the future planet, in collaborazione con il CMCC, e Oltrenatura, in collaborazione con il Festivaletteratura di Mantova. È autrice del manuale Driving scientific research into journalistic reporting (Lookout station project –  European Forest Institute, 2018), di Making sense of science stats (KSJ science editing handbook, MIT 2020), e coautrice di Semi ritrovati. Viaggio alla ricerca dell’agro-biodiversità (Codice Edizioni 2020).

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